Conoscenza formale vs. conoscenza funzionale – Sui limiti dell’intelligenza emotiva

Conoscenza formale vs. conoscenza funzionale – Sui limiti dell’intelligenza emotiva

Possiamo distinguere due tipi di conoscenza, che chiamerei rispettivamente “formale”, e “funzionale”.

Per conoscenza formale intendo il riconoscimento di forme, per conoscenza funzionale intendo la conoscenza delle funzioni o algoritmi (in senso matematico, logico o causale) che producono certe forme.

Possiamo definire le forme come strutture sensibili, sensoriali, o percepibili. Esse includono sia percezioni geometriche e fisiche, sia emozioni o sentimenti.

La fenomenologia del comportamento umano consiste in una conoscenza formale, a cui non è necessariamente associata una conoscenza funzionale.

In altre parole, la fenomenologia del comportamento non ha come scopo la spiegazione dei motivi per cui un certo comportamento viene prodotto, ma si limita a registrarne le forme esteriori ed eventualmente quelle interiori, ovvero le emozioni e i sentimenti connessi con le forme esteriori stesse.

A tal proposito, oserei dire che la fenomenologia, in quanto corrente filosofica, cerca di scoraggiare qualunque tentativo di spiegazione razionale o funzionale dei fenomeni intesi come percezioni, nel timore che la spiegazione (sempre teorica) limiti o alteri la comprensione empatica (mai teorica).

Direi che la conoscenza formale è descrittiva, mentre la conoscenza funzionale è esplicativa del perché certe forme hanno l’aspetto che hanno, e, per quanto riguarda le forme del comportamento umano, perché l’uomo si comporta come si comporta.

In realtà, tra la conoscenza formale e quella funzionale potremmo dire che esiste una conoscenza intermedia che potremmo chiamare conoscenza emotiva, o intelligenza emotiva, che cerca di “spiegare” il comportamento in termini di cause emotive o sentimentali.

In altre parole, l’intelligenza emotiva presume che l’uomo fa ciò che fa perché è spinto a farlo da certe emozioni o sentimenti, ovvero dal fatto che facendolo prova piacere, o prevede di provare piacere, oppure perché facendola evita di provare un dolore, o prevede di smettere di soffrire.

L’intelligenza emotiva non spiega perché nella mente del soggetto certe forme di comportamento evocano o causano piacere (o aspettative di piacere) e certe altre forme evocano o causano dolore (o aspettative di dolore). Lo stesso vale per forme negative di comportamento, ovvero per forme di “non comportamento”, vale a dire comportamenti inibiti o evitati in quanto associati mentalmente con sofferenze.

Una possibile spiegazione generica, e perciò insufficiente, dei motivi per cui certe persone associano certe emozioni a certi comportamenti consiste nell’avvenuta memorizzazione, consapevole o inconsapevole, di esperienze infantili o adolescenziali (ovvero in età in cui lo spirito critico del soggetto non era ancora abbastanza sviluppato) di premiazioni e punizioni, lodi e rimproveri, connesse con certi comportamenti, da parte di caregiver e di persone influenti in generale.

In altri termini, ogni comportamento che si è dimostrato vantaggioso per ottenere piaceri ed evitare dolori è stato memorizzato come positivo e anticipatorio di piacere, e ogni comportamento che si è dimostrato svantaggioso in tal senso è stato memorizzato come negativo e anticipatorio di dolore. Mi riferisco a piaceri fisici o mentali.

Ovviamente le connessioni tra forme di comportamento ed emozioni sono per lo più inconsce, automatiche e involontarie.

Per concludere, una conoscenza completa ed efficace dei comportamenti umani al fine di orientare il proprio comportamento verso la maggiore felicità possibile (propria e altrui) dovrebbe includere la conoscenza formale, l’intelligenza emotiva, e la conoscenza funzionale del comportamento umano proprio e altrui.

Questo è ciò che intendo quando raccomando l’indagine delle motivazioni del comportamento umano. Motivazioni in senso emotivo e funzionale.

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