Il seguente articolo è stato scritto da ChatGPT in risposta al seguente mio prompt:
Scrivi un articolo filosofico dal titolo “Elogio del plurale e dell’articolo indeterminativo” in cui si mette in guardia il lettore dall’errore di considerare un concetto come assoluto e invariabile. Ad esempio “La filosofia”. La filosofia non esiste, esistono le filosofie, e invece di parlare della filosofia (in generale) si dovrebbe parlare di “una” filosofia particolare. Spesso chi dice “la filosofia” si illude che essa esista. In realtà esistono diverse filosofie che si criticano reciprocamente.
RISPOSTA DI CHATGPT
C’è un vizio antico del pensiero, eppure sempre vivo, che consiste nel trasformare un nome in un idolo. È il vizio del singolare definito, dell’articolo determinativo: *la* filosofia, *la* verità, *la* giustizia, *la* natura umana. Ogni volta che poniamo quell’articolo davanti a un concetto, lo fissiamo, lo irrigidiamo, lo rendiamo qualcosa che non cambia e non si discute più. In quel piccolo gesto grammaticale si nasconde una grande illusione metafisica: l’idea che esista “una cosa” che corrisponde pienamente al nome che le diamo.
Ma le parole non sono etichette appiccicate su essenze immutabili. Sono strumenti provvisori, ponti fragili costruiti su un mare di differenze. Dire *la filosofia* è come dire *il colore* o *la vita*: un’astrazione che non esiste da nessuna parte, se non nella mente di chi ha bisogno di ordine e semplicità. In realtà, esistono *le filosofie*, come esistono i colori, le vite, le interpretazioni. Ogni filosofia nasce da una prospettiva, da un’esperienza, da un contesto storico e personale. Parlare *della* filosofia significa cancellare questa molteplicità, come se Parmenide e Nietzsche, Kant e Deleuze parlassero tutti dello stesso oggetto, e non di mondi diversi che si sfiorano, si negano e si trasformano a vicenda.
Il singolare assoluto dà sicurezza. È comodo pensare che ci sia *la verità*, *il bene*, *il senso della vita*: ci libera dal compito di cercare, di scegliere, di dubitare. Il plurale, invece, ci mette a disagio. È instabile, mobile, aperto. Implica che non ci sia un centro, ma una costellazione di punti di vista. Eppure è proprio in questa pluralità che il pensiero diventa vivo. Dove c’è il plurale, c’è confronto, conflitto, crescita. Dove c’è il singolare, c’è dogma.
L’articolo indeterminativo, quel piccolo *una*, è allora un atto di modestia e di verità. Dire *una filosofia* significa riconoscere che ciò che dico non pretende di esaurire il tutto. È un modo per ricordare che il pensiero è sempre situato, parziale, provvisorio. È un invito a lasciare spazio all’altro, a un’altra filosofia possibile.
Forse la maturità del pensare comincia proprio qui: quando impariamo a sospendere *il* singolare e ad abitare *il* plurale. Non per rinunciare a capire, ma per capire meglio, accettando che ogni concetto, ogni visione del mondo, è solo una delle tante che cercano di illuminare il reale da angolazioni differenti.
E allora, invece di difendere *la* filosofia, proviamo a praticare *una filosofia*: la nostra, fragile e discutibile, che dialoga con le altre senza pretendere di dominarle. In quel gesto linguistico — in quel piccolo, umile “una” — si nasconde la libertà del pensiero.
