L’ipocrisia dello status e la nevrosi contemporanea

L’ipocrisia dello status e la nevrosi contemporanea

Questo articolo è stato scritto da ChatGPT, come risultato della mia richiesta di migliorare il mio articolo “Status e nevrosi”, che potete leggere in  (https://blog2.cancellieri.org/status-e-nevrosi/).

Ho fatto la stessa richiesta a Gemini, e il risultato è in https://blog2.cancellieri.org/la-tirannia-silenziosa-dello-status-riconoscere-la-vera-motrice-della-vita-sociale/.


Da anni giro intorno a una verità rimossa e sfuggente: che gran parte della nostra vita psicologica e sociale ruota attorno allo status, cioè alla misura, percepita e riconosciuta, del nostro valore rispetto agli altri.

Dedichiamo energie immense ad affermare e difendere il nostro status, a farlo crescere, a confrontarlo con quello altrui, a ottenere conferme che ci rassicurino sull’immagine che abbiamo di noi stessi.

Essere accettati dagli altri significa, quasi sempre, ottenere l’accettazione dello status che crediamo di avere e di meritare.

1. Lo status come realtà multiforme e inevitabile

Lo status non è solo economico. È intellettuale, morale, estetico, politico, artistico, tecnico, sportivo, scientifico.
È fatto di risorse materiali e immateriali: competenze, gusto, stile, reputazione, ricchezza, salute, conoscenze, carisma, virtù percepite, posizioni raggiunte.

In ogni ambito della vita — professionale, affettivo, sociale — lo status determina:

  • quanto risultiamo attraenti, rispettabili, desiderabili;
  • quanto siamo ascoltati o ignorati;
  • quanto siamo considerati pari, inferiori, superiori.

Che lo si voglia o no, lo status crea una mappa gerarchica della società, in cui ciascuno si colloca rispetto a tutti gli altri.

2. Il grande tabù: tutti amano lo status, quasi nessuno lo ammette

Viviamo in una cultura ipocrita. A parole demonizziamo la ricerca di status — è vista come vanità, superficialità, arroganza — mentre nei fatti la celebriamo in forme più o meno mascherate.

Lo facciamo quando:

  • esibiamo modestia solo per apparire più “puri” degli altri;
  • critichiamo chi mostra il proprio successo, sperando che ciò elevi il nostro status morale;
  • celebriamo l’autenticità e l’umiltà come nuove forme di superiorità etica.

È un teatro sociale in cui ciò che condanniamo apertamente è proprio ciò che perseguiamo segretamente.

3. La rimozione come causa della nevrosi

Questa contraddizione ci rende nevrotici. Non è la ricerca di status in sé ad essere patologica — è la sua negazione pubblica unita alla sua pratica privata.

Rimuovere il desiderio di status produce:

  • senso di colpa (“non dovrei volerlo”);
  • autosvalutazione (“perché mi importa così tanto?”);
  • ipersensibilità al giudizio altrui;
  • ansia continua (“e se si accorgono delle mie ambizioni?”);
  • spirale di autoinganno (“io non cerco riconoscimento”, detto mentre lo si cerca disperatamente).

E si genera un paradosso velenoso: la convinzione che disprezzando l’amore per lo status il proprio status aumenti, come se l’apparire “disinteressati” fosse una virtù superiore.

Il risultato è un mix di narcisismo e misantropia, spesso entrambi inconsapevoli.

4. Da dove nasce l’avversione dichiarata allo status?

Le radici di questo tabù sono profonde:

  • Tradizione cristiana: l’umiltà come virtù e la superbia come peccato.
  • Ideologia egalitaria moderna: tutti uguali, quindi nessuno “vale più”.
  • Moralismo democratico: la gerarchia deve essere invisibile, anche quando è ovunque.
  • Desiderio mimetico (Girard): bramiamo ciò che gli altri bramano, ma non possiamo ammetterlo senza scoprire la nostra vulnerabilità.
  • Ansia contemporanea di autenticità: si deve apparire spontanei, mai calcolatori.

Tutto ciò crea una cultura in cui la ricerca di status è onnipresente ma non dicibile.

5. Status e competizione: una riabilitazione necessaria

Per guarire da questa nevrosi collettiva non basta “ammettere” l’importanza dello status.
Serve anche una riabilitazione della competizione, spesso demonizzata senza comprenderne la funzione.

Non parlo di competizione brutale e distruttiva, ma di:

  • misurazione realistica delle proprie capacità;
  • confronto trasparente con gli altri;
  • valorizzazione delle eccellenze;
  • accettazione dei propri limiti;
  • cooperazione basata sul riconoscimento reciproco dei diversi livelli di competenza.

La competizione non è l’opposto della cooperazione: è la sua regolatrice naturale.

Dove tutto è “uguale per definizione”, la cooperazione si degrada; dove le differenze sono riconosciute, la cooperazione fiorisce.

6. Verso una riconciliazione con lo status

Guarire dalla nevrosi dello status significa:

a) riconoscere il desiderio di status come parte dell’umano

Non è un difetto morale: è un bisogno evolutivo, sociale, strutturale.

b) distinguere tra status sano e status compulsivo

  • Lo status sano nasce da competenze, contributi, capacità reali.
  • Lo status compulsivo nasce dal vuoto, dalla paura, dal confronto ossessivo.

c) accettare la propria posizione relativa senza euforia né disperazione

Una valutazione realistica di sé è un sollievo, non una condanna.

d) smascherare la nostra stessa ipocrisia

Senza colpa, senza vergogna, senza retorica moralistica.

e) riconoscere che lo status è un bene simbolico che tutti scambiamo

Non c’è relazione umana che non implichi un qualche scambio di status.

7. Conclusione: un nuovo coraggio sociale

Tutti, nessuno escluso, amano il proprio status — consciamente o inconsciamente. Ma la maggior parte nega di farlo, come se l’ammissione stessa fosse una forma di caduta morale.

Ecco il paradosso finale: disprezzando pubblicamente l’amore per lo status, molti cercano di elevarsi sopra gli altri in nome di una virtù apparente.

Questa contraddizione genera un diffuso disprezzo latente verso se stessi, un senso di colpa sotterraneo e l’ansia sociale che permea ogni gesto quotidiano.

Liberarsene non significa rinunciare allo status, ma riconciliarsi con esso. Significa uscire dall’ipocrisia collettiva e assumersi la responsabilità del proprio desiderio di valore, di riconoscimento e di differenza.

Non è un passo facile. Ma è l’unico che può restituirci un rapporto non nevrotico con noi stessi e con gli altri.

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